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acquatici, e dei quadrupedi che fuggivano innanzi al flagello divoratore dei dipteri succhiatori. Il ghiaccio rompevasi al mese di giugno. I blocchi di ghiaccio cumulati, formavano delle dighe, cagionavano delle inondazioni che, ritirandosi, lasciava un letto di piccoli pesci, cui si disseccavano per i cani.

Io non avevo bisogno di tutto codesto, perocchè, in qualunque modo, io non avevo a passar l’inverno sul mare Glaciale. Ma Metek? Ma chi sa? D’altronde, io dovevo giustificare la parte cui rappresentavo.

Io non saprei esprimervi lo stupore atterrito che mi prese contemplando per la prima volta, verso il principio di aprile, lo stretto di Behring. Avevo lasciato Metek e Cesara all’accampamento ed ero partito con Ethel e con alcuni altri Tsciuktscias per andare alla caccia dell’orso bianco e della foca. L’aria sembrava pura; ma eravamo appena in cammino che il vento nord-ovest ci scatenò su un nebbione denso e nero come il fumo, chiamato morok. Noi non vedevamo il compagno assiso a fianco a noi sulla stessa slitta. I cani andavano d’istinto. Avevamo a scalare un monticello conico per sboccar poi, per un torrentuolo, sulle sponde del mare. Facemmo alto alla vetta della balza onde fare riposare i cani. Ad un tratto il vento saltò al sud-est, e come un sipario di opera che si leva, il nebbione si dissipò, non so dove, ed il mare si schierò innanzi ai miei sguardi abbagliati.

Era il mare?

Figuratevi la Svizzera vista dall’alto di un pallone aerostatico, a mille metri al disopra del monte Bianco. Figuratevi la cattedrale di Milano cento volte più grande che Londra, vista dalle regioni ove spa-