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e venne armato del suo batase — una lama di ferro in cima di una lunga asta.

Il Tsciuktscia mangiò con noi, spiando cosa potesse rubare e toccando tutto. Egli venne in seguito ogni dì, mattina e sera, nella sua slitta, tirata da quattro renne. Egli contemplava Cesara con occhi carichi di scintille. La sua famigliarità cominciava a stancarmi. Avevamo fatta una buonissima caccia di argali ed ucciso un orso, avvegnacchè ci fosse stato impossibile avvicinare le renne selvagge e pigliarle al laccio. Fissai dunque la nostra partenza per il domani. I cani erano, se non guariti interamente, in istato di viaggiare. Una copiosa panciata di orso li mise in galloria. La giornata, relativamente calda, fu spesa nella caccia. Verso sera, Metek si ostinò a seguire le peste di un argali; io rientrai per fare qualche rattoppo alla slitta. Fui stupito nel vedere, a poca distanza dal nostro accampamento, la slitta del vicino. Accelerai il passo. Ad un tratto, lo scoppio di una pistola mi giunse all’orecchio. Corsi... mi precipitai nella tenda.

— Al soccorso, mi gridò Cesara, con le vestimenta lacere, e rovesciata al suolo.

Il Tsciuktscia lottava con lei. Vedendomi, e’ si raddrizzò, e si scagliò sopra di me, colla batase alla mano. Era stato ferito alla guancia dalla pistola di Cesara, e gliela aveva strappata di mano. Io rinculai fuori della tenda, ed afferrai l’accetta. Avevo il fucile: avrei potuto abbattere quel miserabile con una palla nella fronte come avevo fatto dell’orso; ma mi sembrò vigliaccheria. Ero forse ridicolo; ma infine la fu così. Un duello in regola cominciò tra noi due. Il selvaggio aveva il vantaggio dell’arma, io quello della ginnastica