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aveva abbattuto il selvaggiume. Ei s’incontrò faccia a faccia con Metek.

Il Jukaghir rassomiglia un po’ al Russo: capelli ed occhi quasi neri, viso lungo abbastanza regolare, una bianchezza straordinaria di pelle, ben fatto, di statura media. Poi, gaio, ospitale, suonando quasi tutti il violino o la balalayka, o mandolino.

Io sopraggiunsi. Il povero cacciatore non sospettava neppure il male immenso che ci aveva fatto. Metek glielo spiegò. Il Jukaghir gettò un grido di gioia, e c’informò che a 50 verste più lontano, all’est, quasi sulla riva del fiume, si trovava una yurta di Tsciuktscias, abitata da una famiglia che possedeva delle renne domestiche. Il Jukaghir ci cedè la metà della sua preda, ciò che noi non eravamo in grado di rifiutare, e si allontanò. I nostri cani furono nudriti, e noi facemmo un eccellente desinare colla lingua della renna.

Partimmo all’indomani alla ricerca della yurta. Ell’era, del resto, sulla nostra via.

Arrivati la sera al sito, ove la yurta provvidenziale doveva essere — Metek aveva presi dei ragguagli precisi — , ci fermammo. La giornata era stata orribile. Avevamo seguito una valle profonda, nella quale l’Anadyr scorre, nell’estate, quasi incassato fra due argini fiancheggiati da rupi a picco, minacciose, e sporgenti.

Intorno a noi si dondolava un vapore azzurrastro, che dava forme bizzarre alle rupi. Dall’alto di questi picchi, colle cime fantasticamente dentellate, slanciavansi delle cascate, ora rapprese dal gelo nel loro salto e formanti sulle costole del granito delle anse di diamante. La crosta del fiume presentava una