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Se si fosse trattato semplicemente di ucciderne una o due, la preda era sicura. Ma trattavasi di avvicinarle, di tenerle ad una distanza convenevole per lanciare loro il laccio. Un colpo di fucile le avrebbe fatte partire come il vento! La steppa, coperta di neve, si allargava dinanzi a noi a perdita di vista, zebrata di cespi di ginepri ed altre piante fanerogame, malescie e nane, di cui le renne mangiavano i rimettiticci più teneri. Il capo-renna, che dirigeva il piccolo branco, il vojati, quasi sempre una renna femmina magnifica, grande come un bisonte, ci scôrse, e rizzò il superbo suo capo, ma non diede il segnale della partenza.

— Se quelle renne non appartengono a qualche Tsciuktscia, disse Metek, esse hanno avvicinato però l’uomo. Ci sarà quindi facile forse di strisciare dolcemente fino ad esse e tentare di accalapiarle.

Chiamammo i cani, che ci obbedivano con estrema difficoltà, ed io m’incaricai di ritenerli presso di me, mentre Metek si approssimava a carponi verso il piccolo gregge. Le renne non si spaventarono. Esse guardavano con attenta curiosità quell’essere ravvolto in una pelle simile alla loro, che rotolava lentamente nella loro direzione. E Metek avanzava sempre: il mio cuore batteva. Metek accelerava il suo approccio, infine il mio cuore saltò di speranza. Metek arrivava a portata di lanciare il laccio e si rizzava infatti dietro una macchia, quando una freccia fendè l’aria con un sibilo lamentevole, ed andò a conficcarsi nel cuore della renna-capo. Essa gettò un bramíto lacerante e cadde. Il piccolo branco fuggì come uno stuolo di uccelli spaventati. Immediatamente, di dietro un’altra macchia si mostrò un Jukaghir, che