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orgia, Metek accese il fuoco. Ben presto il calderino risuonò, e il pemmican ci fece un brodo in cui stemperammo un po’ di farina di segale. Nient’altro; ma era un liquido caldo, e ci rifocillò.

Due ore dopo, giravamo la steppa macchiosa.

La notte era estremamente fredda, ma chiara; le stelle palpitavano di luce azzurrina. La neve, indurita come marmo, offriva una strada solida e sdrucciolevole. Ai primi passi, i cani caddero sulle orme di un selvaggiume. Ciò fu buona ventura: quelle bestie, che di solito fanno dieci o dodici verste all’ora, oltrepassavano in questo momento le quindici verste — il massimo della loro velocità. Un’ora e mezzo dopo, li lasciavamo respirare per una mezz’ora; poi la corsa ricominciò. Due giorni dopo, eravamo all’Anadyr, nel sito ove la Travyanaija ha le sue foci.

Bisognò riposarci un giorno. I cani non avevano più fiato. Ci credemmo, del resto, liberi dall’inseguimento degli assassini.

Non ci restavano che novecento verste di fiume da discendere.

Io mi credeva quasi al termine del mio viaggio.

— Egli è impossibile raggiungere il golfo d’Anadyr col nostro equipaggio, mi disse ad un tratto Metek. I nostri cani, quasi tutti, hanno i piedi malati. Se sanguinano, siamo spacciati.

— Che fare allora?

— Anzi tutto li calzerò di stivaletti, e continueremo con essi fin dove potremo. Ma è mestieri pensare ad altro.

— Per esempio?

— Per esempio, cacceremo alle renne, ma non col fucile, col laccio. Queste bestie se la svignano verso