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Arrivava in tempo per liberare sua sorella, così bella poco dianzi, e ora così atrocemente e spaventevolmente mutilata. Ma non arrivava in tempo per salvarla.

La scomparsa del colonnello aveva dato l’allarme. La nostra partenza, l’arrivo dello zio destarono dei sospetti. Si cercava già da pertutto il conte di Schaffner. Il giudice del circondario si presentò per fare una visita nella nostra casa, come aveva fatto in altre. La vista di mia madre, le grida soffocate che uscivano dal sotterraneo denunziarono l’opera del padre mio. Occorre dir altro? Tre mesi dopo, quella disgraziata donna era appiccata; mio zio posto in una segreta; la casa, l’orto, le suppellettili, i nostri pannicelli, tutto fu confiscato.

Il colonnello aveva presieduto la Corte marziale che emanò la sentenza.

Mio padre era anch’esso condannato al patibolo, e si prometteva un premio a chi lo denunziasse e lo consegnasse nelle mani della giustizia.

La mancia era inutile. Era io che dovevo consumare la sua perdita.

Avevamo marciato, senza fermarci, dritto alla puszta — ovverossia alla pianura dell’Ungheria magiara. Mio padre mi aveva lasciato presso un cugino della mia vera madre, la sua prima moglie, sulle rive della Tisza, ed egli, dopo un giorno di riposo, aveva raggiunto Rosza Sandor, suo amico.

Rosza Sandor era un po’ ciò che gl’Italiani chiamano un brigante. Celebre per i suoi audaci colpi di mano, preso, si evase, ed errava nella puszta da anni, conducendosi come un bravo ed onesto masnadiero, non odiando nè facendo male che agli Austriaci. Più tardi