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due dei suoi cinque Cosacchi per far eseguire l’ordine, promettendo, del resto, di occuparsi egli stesso dei nostri apparecchi.

Se Metek avesse portato di che nudrire la nostra muta di ventiquattro cani per due mesi, egli è certo che mi sarei sbarazzato dei due Cosacchi in un modo o in un altro, ed avrei continuato il mio viaggio. Ma, senza scorta, noi non potevamo marciare che un giorno e poi restare seppelliti nelle tundras. E le zanzare ci avrebbero succhiati vivi l’estate. Bisognò dunque fare buon viso, avvegnacchè il cuore battesse con violenza.

Partimmo all’indomani, una delle narte tirando al rimorchio la slitta, ove Cesara ed io ci tenevamo.

Tre dì più tardi arrivammo a Verknè-Kolimsk, miserabile borgo, ove evvi un piccolo ostrog, esile fortezza in legno, circondata di palizzata e grossi tronchi. L’ostrog, cadendo in ruina, ricoverava male i cinque Cosacchi che l’occupavano per dare mano forte all’offiziale del bailo nella esazione del yusak nel distretto.

L’esaule era un Russo, invecchiato nel paese, lupo un dì formidabilmente affamato, ora un po’ addimestichito.

Presi immediatamente con lui un’aria insolente ed in collera, lo minacciai di portare i miei lamenti al governatore della Siberia orientale. L’esaule non si mostrò però troppo turbato, e mi chiese il mio passaporto. Io glielo presentai. Ei lo lesse e rilesse, lo voltò e rivoltò nelle sue mani, mi guardò in maniera sospettosa, mi squadrò con insolenza.

— Il passaporto è in regola, disse egli alla fine. Vediamo adesso la lettera di commissione dell’Ammiragliato di Pietroburgo.