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Io feci una corsa ad una yurta lontanissima dalla nostra isba — se mi è permesso piaggiare così la nostra tana. — Il povero cacciatore si affrettò di gran cuore a regalarmi della sua polenta di larice — la parte tenera e delicata della scorza di un giovine larice bollita nell’acqua, ma senza sale nè pepe. Il Siberiano abborre il sale.

E dire che il Governo russo esige da questi affamati il yosak, ossia tributo in pellicce di circa nove franchi per testa!

Quindici giorni scorsero senza troppa ansietà. Ma, da quel momento, non fu più che un’agonia spasmodica la nostra. Ciò durò quattro giorni. La sera del quinto dì, ci eravamo già ritirati nella nostra casa, attorno al sciuuvale fiammeggiante, il focolaio, quando udimmo un rumore alla nostra porta.

Hurrà! era Metek, che arrivava con due narte, di cui una tirata da ventiquattro cani, l’altra da dodici. Ma quale non fu la mia sorpresa, quando vidi discendere da quei veicoli due Cosacchi!

Ecco di che trattavasi.

Metek non aveva potuto compiere la sua commissione senza attirare la curiosità dell’esaule, il capo della truppa di Verknè-Kolimsk, il quale faceva le funzioni di delegato di Srednè-Kolimsk. Era stato mestieri allora dire il mio nome al rappresentante dello Czar. La strada straordinaria che percorrevamo, il racconto un po’ gascon che Metek fece forse delle nostre avventure — i Russi sono essenzialmente esageratori — parvero sospetti all’esaule. E’ non volle permettere il reclutamento dei cani e la compera delle provvisioni, ma somministrò una narta per condurci a Verknè, e mandò