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un metro di neve, per farci de’ segni. Ciò durò sette o otto ore. Quando il turbinio si acquetò, noi uscimmo dalle nostre tane, ed il freddo intenso che incontrammo alla superficie, all’aria aperta, c’irrigidì di un colpo come una verga di acciaio. Ci rimettemmo in cammino per ripigliare un po’ di calorico; ma il cuore era più ghiacciato ancora che il corpo.

Facemmo così cinque verste; poi Cesara cadde sulla neve. Cercammo un ricovero sotto un cespuglio di spine, ed a forza di grattare, sbarazzammo il sito fino alla superficie del suolo: vi posammo la nostra lamina di rame, secondo il solito, ed accendemmo il fuoco. Il caldarino, pieno di neve, cantò; il pemmican ci offrì un brodo rifocillante. Ma come passare la notte? Non avevamo più la tenda. Scavammo, dietro un ciuffo di pini nani, un tunnel sotto la neve, assicurandoci bene ch’essa era solidamente gelata, affinchè la vôlta non ci cadesse sopra; poi ci calammo sotto quell’arcata, a mo’ dei Samojedi, coi piedi verso il fuoco, bene avvolti nelle nostre pellicce. Poco dopo, avevamo, per così dire, troppo caldo.

Viaggiammo in questa guisa tre giorni, e facemmo circa venti verste. Al quarto giorno, Cesara cadde ai miei piedi, e sclamò:

— Uccidimi, e salvatevi. Io non posso andare più oltre.

Mi sentii annientato. Mi lasciai piombar sulla neve, e gridai alla mia volta:

— Ebbene, figliuola, moriamo insieme.

Metek ci guardò senza proferir sillaba, e si assise accosto a noi. Il silenzio, l’inerzia disperata durò quindici minuti: quindici secoli! a traverso i quali l’anima valicò abissi di dolore senza nome, terrori frenetici. Infine Metek si levò, e disse: