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era stato compreso nell’amnistia. Mi recai immediatamente da lui.
E’ dimorava nel sobborgo, in una casipola di legno, vivendo poverissimamente della piccola pensione di proscritto del Governo e delle limosine dissimulate dei suoi compagni di sventura. Una fanciulla di quindici a sedici anni, di una grande bellezza, sua figlia, venne ad aprirmi la porta, e mi annunziò al vegliardo.
Il colonnello aveva poco più di sessanta anni, ma pareva ne avesse ottanta. Cieco da dieci anni, e’ si teneva accovacciato sur una seggiola, e si bagnava al sole che filtrava dalla sua finestra. I suoi lunghi capelli bianchi, ben pettinati, gli cadevano sulle spalle. I suoi vestiti, bottonati fino al collo, frusti ma lindi, lo serravano militarmente. Un cane gli teneva luogo di sgabello.
— Sareste voi per avventura parente del mio amico Taddeo Lawanovicz, signore? mi dimandò egli, udendo il rumore dei miei passi.
— Sì, colonnello; sono il suo primogenito, risposi io.
E’ si alzò, e mi strinse fra le sue braccia. Tremava in tutta la sua persona. Delle lagrime scorrevano sulle sue guance. Si accasciò quasi sulla sedia; poi, cercando la mano di sua figlia e mettendola nella mia, cui egli continuava a premere, sclamò con voce profondamente commossa:
— L’onnipotente Dio sia benedetto! Cesara, io posso morire senza disperarmi adesso; Dio ti ha mandato un fratello.
Io era inginocchiato da un lato della seggiola del vecchio, Cesara dall’altro. Ci levammo con un