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zati convalescenti rinculavano dinanzi l’officio di infermiere. Mi sentivo morire. Rinvenni nei sensi però, come qualcuno a cui si fa respirare un alcali in uno svenimento. Apersi gli occhi, cercai ricordarmi, riconoscermi, ritrovarmi; potei infine distinguere gli oggetti in mezzo a quella notte.... Orrore! Sopra due degli scaffali di contro a me, giacevano due cadaveri in putrefazione. Mi lasciai cadere dal mio giaciglio, e mi trascinai, a carponi, all’aria libera, deciso di morire sotto la mia yurta come un cane, anzi che sapermi sotterrato vivo in quel sepolcro omicida. Per fortuna, il mio Russo, Clemente Balardine, veniva a visitarmi. E’ mi raccolse, e mi portò nella yurta....

Tre settimane dopo, ritornavo alla miniera. Il capitano, vedendomi sì magro e pallido, mi collocò in una compagnia che lavorava al di fuori, alla trazione del minerale. Quel capitano era al postutto un bravo uomo, malgrado le apparenze severe e rigide: era anzitutto giusto.

— Chi diavolo ha potuto mandarvi a crepar qui, mi disse egli: che delitto avete voi commesso?

— Sono polacco, risposi io.

— Comprendo, mormorò il capitano. Non vi occorre dirmi altro; l’uovo che s’incaparbia a schiacciare il martello!

— Capitano, sapete voi che cosa è la patria?

— Io so ciò che è lo Czar. Ma, non importa, credo comprendervi. Quando mi ricordo il villaggio ove son nato, ove ho passata l’infanzia, ove ho lasciato il mio vecchio padre, ove ho visto morire mia madre.... che il diavolo mi porti! io non mi sento mica a mio modo.