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L’altro coabitatore della yurta era un brigante Tonguso, il quale aveva rubato ed ucciso. Nessuno dei due non aveva avuto ancora il tempo di costruirsi una capanna, ed il Governo li alloggiava nelle sue yurte.

A capo di una settimana, la disperazione s’impossessò di me. Non avevo più forza per lavorare, meno ancora per intraprendere la mia evasione. Udivo la frusta del caporale sibilare alle mie orecchie, e non mi riposavo mai onde non essere battuto; ma ciò accelerava la mia morte. Non mangiavo più. Il sangue mi si agghiadava nelle vene. Risolsi finirla.

Lavoravo da tre giorni a scalzare un macigno. Mi proponevo di allogarmivi sotto, quando cadrebbe, e lasciarmi schiacciare. Due giorni ancora di lavoro, ed acquistavo la libertà! Io scavava dunque con una specie di rabbia tutto il dì. Una fibra della mia vita se ne andava ad ogni colpo di zappa, ma io persisteva. Ciò mi spossò. All’indomani, non potei più levarmi. Il medico, chiamato dal mio compagno russo, venne. Avevo febbre e delirio. Mi fece trasportare allo spedale.

Quando ripresi i sensi, quarant’otto ore dopo, mi trovai in uno stabilimento in legno, disposto a guisa di interiore di nave. Ogni cabina conteneva dieci malati, cacciati entro scanzie, basse e strette, sovrapposte l’una all’altra, non lasciando fra le due file che lo spazio necessario al passaggio di un uomo. Impossibile di dar volta su quelle nude panche; il compartimento superiore schiacciava quello di sotto. L’oscurità vi era quasi completa; l’aria putrida. I meno ammalati assistevano gli agonizzanti. Il medico non osava penetrare in quel carnaio; i for-