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La mia risposta, il mio atteggiamento gittarono la costernazione fra i Polacchi che lavoravano nell’uffizio del generale. Essi sclamarono ad una voce: Disgraziato!
Scorse un’ora, un’ora di tortura.
Il consigliere riapparve.
— Signore, mi disse con aria troppo pulita, il Consiglio vi destina al lavoro della mine del verderame, a Nertscinsk.
Nertscinsk è la Caina di Dante, vale a dire la cerchia più spaventevole dell’inferno del forzato in Siberia.
La sentenza mi colpì al cuore, ma non abbassai lo sguardo. Il brivido non durò, del resto, che un istante; mi ricordai che quel sito era il più vicino alla frontiera cinese ed all’Oceano Pacifico — due porte della speranza. Uscii. Nel tempo stesso entrava Astatchef, il concessionario delle mine del Governo, ed io intravidi i funzionari polacchi serrarsi attorno a lui e favellargli con calore. Giù mi attendevano un’altra kibitka ed un’altra scorta, quella che doveva accompagnarmi fino al termine della mia deportazione.
Era il 17 settembre 1863. Avevo impiegato venti giorni per arrivare ad Omsk, viaggiando dì e notte — in media 14 chilometri l’ora.
Partimmo all’istante.
Traversai Omsk, ma non la vidi: io entrava nell’estasi del sogno della liberazione!
Il paese, per cui passiamo, ha l’aspetto selvaggio e monotono; ma è solamente un poco innanzi la stazione di Turumoff che s’entra nelle paludi della Baraba.
Il postiglione di questa stazione mi domandò se io