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La sala d’aspetto, ove mi fermai, era riccamente mobiliata e zeppa di funzionari e sollecitatori. Mi guardavano tutti con attenzione, qualcuno con tenerezza. Io mi assisi in un angolo, e presi a contemplare i ferri dei miei piedi.

La signora Duhamel era polacca; il generale suo marito si chiudeva quindi in un riserbo austero, quando trattavasi di condannati politici polacchi. E’ lasciava fare al Consiglio, e non ne alterava giammai le risoluzioni.

Uno dei consiglieri uscì dal gabinetto del generale per vedermi. La fisionomia, l’età, la costituzione, le maniere del condannato hanno un peso considerevole sulla decisione del Consiglio, la quale può essere un decreto di morte a breve scadenza. Mi alzai. Il consigliere mi squadrò dal capo ai piedi, con quell’aria scrutatrice degli scozzoni, che esaminano un cavallo che voglion comprare. Questo esame durò parecchi minuti. Io abbassai gli occhi, reprimendomi. Infine e’ dimandò:

Tu sei dunque malato?

Senza essere orgoglioso, io aveva sempre avuto dei modi così circospetti, una gravità sì vera ed assoluta, che mio fratello stesso, dall’età di quindici anni, non mi aveva più dato del tu. Quel tu, scoccato come uno schiaffo da uno sconosciuto, da un uomo che non era nè della mia casa nè de’ miei amici, mi parve un vivo oltraggio. Alzai dunque la testa con arroganza, fissai sul consigliere uno sguardo vivo, e gli dissi:

Voi v’ingannate: io sto benissimo.

Un nugolo si stese sul volto del mio uomo: la sua fronte si corrugò. E’ non rispose. Volse le spalle, e si ritirò.