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mento, che non s’accorse neppure, nel ritornare a casa colla figlia, di essere seguita da qualcuno.

Gli autori non rinvenivano dalla sorpresa, che destava in loro quell’immenso successo.

La critica classica si sforzò di contestarlo.

Bruto inviò due padrini ad un giornalista, che rifiutò il duello, sotto pretesto che si credeva padrone di trovare che la figlia di Ippocrate non doveva portare guardinfante. Bruto gli spianò le spalle. Diede dei buffetti ad un altro critico, il quale pretendeva che i cannoni non esistevano in quell’epoca remota. Slogò una mascella ad un terzo che aveva trovato tutto ottimo, salvo che Ippocrate non avesse parlato greco.

La polizia s’intromise e Bruto fu messo in gattabuia.

La buona azione metteva capo ad un carcere.

Lena Minutolo non seppe mai che Bruto avesse scritto quella produzione apposta per lei, che a lui era debitrice del suo primo debutto, nè ch’egli avesse intercalato nel dramma un’aria appositamente per procurarle un gran trionfo.

Ci volle l’intervento dell’arcivescovo, messo in ballo dal curato di San Matteo, spinto alla sua volta da don Noè, per far uscir Bruto dalla prigione, tantochè vi rimase solo venticinque giorni.

Una prima ruga gli solcò la fronte.

Egli pensò.

Al domani della rappresentazione un’orribile vecchia si presentava dalla madre di Lena con una lettera del marchese Annibale de Diano.