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zione, alcune cattive tragedie, comprese quelle d’Alfieri e ciò costituiva tutto il criterium d’arte drammatica ch’ei possedeva. Non aveva mai pensato a scrivere, non dirò una tragedia o una commedia, ma neppure un articolo necrologico, o un avviso per un dentista. Tutto ad un tratto, un sentimento germoglia nel suo cuore, invade la sua testa, esalta il suo cervello ed eccolo tutto stralunato inforcare il gran cavallo di Shakespeare.

Don Gabriele era più provetto di lui. Da venti anni frequentava i teatri: da quindici anni improvvisava e rappresentava delle farse colle marionette. Era, senza saperlo, senza addarsene e colla più grande ingenuità, un uomo di genio, al quale non mancava altro che la cultura, l’abilità, l’aria dello spirito, poichè l’ispirazione del cuore l’inebbriava.

Bisognava vedere come era eloquente, tenero, ardito, nelle commedie melanconiche, come seminava a larga mano la gaiezza quando metteva in iscena Pulcinella, come era fieramente e poeticamente gran signore quando dava la parola ad un paladino di Carlo Magno! Don Gabriele possedeva tutti i tasti. Non gli mancava che l’accordo e quell’accordo che d’un semplice commediante o di un semplice direttore di teatro fa un Plauto, un Molière, un Lopes de Vega, uno Shakespeare.

L’istinto era la sua stella polare: e poi l’osservazione quotidiana del dramma della vita, osservazione naturale che germogliava da sè sola e si annicchiava nelle caselle della sua mente. Don Gabriele ascoltò, dunque, l’idea di