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vicine a quattro cortine di broccatello del 1500; dei canapè del secolo XVIII in arazzo, in legno verniciato azzurro ed oro, coi loro arabeschi, i loro fiori, i loro amorini paffuti, litigavano con due mensole del 1600 in marmo giallo e legno dorato, intagliato a fiori come un merletto.

Ah! se quei mobili avessero potuto raccontare ciò che avevano udito e veduto, donde venivano, per quali peripezie erano passati, come avevano rotolato giù e come dal buio fondaco di un rigattiere, dove si accimorrivano, erano venuti a trovar riposo nel salotto di questo figlio d’un barbiere, embrione di medico, che non li apprezzava punto e che avrebbe preferito l’acagiù, o il palissandro coperto di reps!

Ah! se quegli oggetti d’arte avessero potuto ripeterci le parole del marchesino, i madrigali dell’abate ed i progetti atroci del barone. Che memorie! che cronaca quella di un bonheur-d’un-jour, d’un tabouret, di un inginocchiatoio.

Codeste gravi cose se le susurravano, forse tra loro quei mobili riuniti colà come al festino d’un mago, quando la povera Tartaruga li spolverava per bene, facendosi la croce in tutte le longitudini e latitudini del suo corpo e ruminando dei Magnificat e delle Salve Regina alla vista di certe nudità degli arazzi.

Bruto s’era occupato della sua famosa stanza. Quale non fu lo stupore di Tartaruga, quando vide arrivare un letto di ottone per due persone, un armadio a specchi, una dormeuse e dei coins de feu? Tutte queste cose rivelavano