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— Ti do carta bianca.

— Non assicuro che sarà qui come al palazzo reale, soggiunse don Gabriele; ma non sarà nemmeno l’appartamento d’un droghiere.

— Comincieremo domani, disse Bruto. Bisogna che la sua camera sia pronta fra otto giorni.

— La camera di chi?

— Di chi? del colonnello, per Dio! Gli scrivo domani di venire.

— E gli dite che sua moglie e sua figlia sono al suo comando?

— Me ne guarderò bene. Gli scrivo: Vieni! e gli mando venti ducati per il viaggio: gli dico di partire senza strepito, per non svegliare la polizia e fra otto giorni il colonnello sarà qui.

— Ed il passaporto?

— Ci penserà lui. Entrerà in Napoli di notte, a piedi, nella sua pelle di sergente, che non desta sospetti.

— Venga, disse don Gabriele, la sua camera sarà pronta. Digli però di fermarsi a Portici, il tal giorno, la tale ora, nel tal sito, ed anderemo a prenderlo.

— No; lascialo fare: la sa più lunga di noi.

Il domani don Gabriele si mise all’opera.

Dove mai abbia frugato, non saprei dirlo. Ma fatto è che disotterrò la più curiosa collezione di sedie, seggioloni, sofà, armadi, tavole, portiere, tappezzerie che siasi mai veduta. L’insieme stuonava; ma ogni cosa, presa a parte, era un gioiello. Delle sedie del secolo XV ad alta spalliera, intagliata a fogliame e coperte di cuoio di Cordova dai gigli dorati, si vergognavano