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Nella stanza una donna scopava e rimoveva le spazzature dalla scala. Era alta, magra come il San Girolamo del Domenichino, coi capelli grigi, sucidi, che s’abbaruffavano sopra una testa, del resto, fina e scoverta. Era vestita alla grazia di Dio, se si può chiamar vestito quel brandello di gonna che le arrivava a mezza gamba. Aveva i piedi senza calze, in una sorta di pantofole; una camiciuola di calicot denunziava l’assenza della camicia, che stava infrattanto asciugando alla finestra.

Quella donna aveva la schiena voltata e brontolava sola sola.

L’uomo gettò un’occhiata nella stanza ed osservò dietro un paravento, tutto stracciato, un giaciglio che faceva le veci di letto; presso alla finestra, due seggiole, di cui una serviva di tavolino da lavoro a qualcuno che attendeva a cucire ed a ricamare e che non era là in quel momento; poi altre due seggiole che davano una smentita a tutte le leggi dell’equilibrio; un vecchio armadio di legno bianco, tutto sucido, sopra il quale v’era una mezza dozzina di tondi rotti o screpolati. In un angolo della stanza, sur un fornellino, un vaso di creta, ove bollivano probabilmente quei cavoli, di cui alcune foglie erano sparse sul pianerottolo. Ed era tutto, se si aggiunga un tavolino di pioppo, lercio come il resto, appoggiato al muro e che non conservava più che tre delle sue gambe. L’uomo tossi, sputò, ma la donna non se ne diede per intesa.

L’uomo incrociò le braccia ed aspettò che l’operazione dello spazzare facesse arrivare la