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Quattro ceri, su degli alti candelabri da chiesa, ardevano intorno alla bara. Il cadavere era scoperto. Tartaruga fra un’orazione e l’altra dava un ordine o una indicazione. Bruto, nell’altra stanza, solo colla testa appoggiata sulle mani, le mani sopra la spalliera della sedia, non vedeva nè udiva nulla.

Venne la notte. I vicini si ritirarono. Bruto, Tartaruga ed il cadavere restarono soli. Il bidello e l’inserviente della chiesa si unirono per mandar loro due tazze di cioccolata e di quei biscottini spolverizzati di zucchero che si chiamano tarallucci. Poi tutto divenne solitudine nella camera, nella casa, in istrada, nella città. Tartaruga, che pregava appiedi della bara, soccombendo alla fine al sonno, si accasciò su sè stessa. Bruto passeggiò nelle due stanze.

Era il mese di agosto; faceva ancora gran caldo.

La notte era molto avanzata, la finestra aperta e la luna, pura e grave, navigava in un cielo azzurro d’una profondità senza confini. Bruto rifletteva.

Egli si sentiva ormai solo, assolutamente solo. Questo zio, per poca cosa che fosse, per piccolo posto che occupasse nel mondo, benchè brontolone, volgare, ignorante, esigente, era pure un legame che lo attaccava alla società. Questo zio lo riuniva anzi a tutta una classe sociale potentissima e d’una influenza capitale: la gente di chiesa. Morto il sagrestano, tutte le relazioni erano rotte, perchè Bruto, senza odiarla proprio, sentiva una invincibile ripugnanza per quella parte della società che specula sull’a-