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cardinal Dubois riservava al conte di Laval chiuso nella Bastiglia, nonostante che il reggente avesse protestato: “poichè non gli resta che questo divertimento bisogna lasciarglielo.„ Il dottore gli fece inghiottire la pozione per forza, ad onta delle sue proteste e del suo furore.

In quel momento arrivò Bruto tutto ansante: poichè era passato dalla chiesa ove il parroco gli aveva raccontato il caso di suo zio, consegnandogli una lettera per quest’ultimo. Bruto gettò il cappello sul tavolo e la lettera e, corso al letto di don Noè, restò come fulminato; aveva compreso tutto, vedendo il dottor Tibia.

— Che cosa gli ha dato, maestro, chiese egli.

— Ha una indigestione di lumache, rispose il dottore, gli ho dato una decozione di china con tintura di gluton.

Bruto trasalì, si coperse il viso fra le mani, poi rizzandosi d’un sbalzo, gridò:

— L’avete assassinato.

Indi con un gesto della mano indicò al dottore la porta e si avvicinò a suo zio. Il dottore lo guardò con aria di sprezzo ed uscì senza aprir bocca.

— Non c’è più nulla a fare, mormorò il sagrestano. La mia ultima ora è venuta; questo Tibia è il più gran asino che io abbia incontrato in settant’anni di mia esistenza.

— Povero zio! disse Bruto.

— Gli perdono, ma egli mi ha ucciso. Ti lascio mio erede. Sii economo. Ho raggranellato alcuni scudi a forza di litanie: non divorarli con delle ballerine o delle bagasce. Raccomando la mia anima a Dio, il corpo a te. Don Gennaro ti