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netico. Don Gabriele s’inebbriò. Trottò senza mangiare, senza bere, senza pigliar fiato, al Largo delle Pigne. Gli fecero un’ovazione. Lo avrebbero acclamato presidente della Repubblica, se vi fosse stata ancora una repubblica partenopea. Perchè no? mons. Thiers l’è bene della Reale ed Imperiale Repubblica francese! La sera giunse. Don Gabriele s’installò al teatro di donna Peppa e vi guadagnò il suo Austerlitz. A mezzanotte, egli dava la sua terza rappresentazione della serata. Si sentì sollevato. Trovò sè stesso, perchè i romani avevano cominciato a farlo dubitare di sè. Ed e’ fu soltanto allora, ch’egli si accorse di aver fame, sete, sonno. Si pagò una carrozzella e ritornò al palazzo del marchese di Tregle. Spogliandosi per coricarsi, cercando non so che nelle sue tasche, trovò la lettera e si risovvenne che egli non aveva adempita la commissione di cui aveva tolto impegno.

— Animale che sono! gridò don Gabriele dandosi un grande schiaffo. E l’altro che mi aveva raccomandato di portar questa lettera immediatamente! Al postutto, che si possono dire due gesuiti? prega Dio per me, io prego Dio per te, preghiamo Iddio per tutti coloro che ci lasciano la loro fortuna e non ci chieggono nulla della nostra. Andiamo, su! dormiamo adesso. Gli è un ritardo della diligenza, che mo’! un cavallo crepato per via! un postiglione preso da un colpo di apoplessia! un incontro di briganti che so io? Vi è stato malore in viaggio. Io porterò la lettera domani mattina alle nove.