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i suoi tratti arguti e vivi, le sue risposte scintillanti. Don Gabriele se ne desolò dicendo:

— Mille miserie! l’arte morrà con me!

Egli accompagnò il marchese a Roma, da fedel Servitore, non da esiliato. Provò d’introdurre le marionette a Roma.

Da prima i romani non compresero le arguzie del gergo napolitano, — ciò che desolava don Gabriele non vedendo il suo spirito gustato, — poi la polizia del papa trovò che doveva esser il monaco a bastonare il marito geloso e metterlo alla porta e non il contrario. Smise il teatrino ambulante. Visitò chiese e taverne. Si mise a fare una corte platonica alle trasteverine ed a dare la berta alla gente del ghetto. Nulla valse. La flirtation alle trasteverine gli attirò busse da un canonico di S. Giovanni. La nostalgia dei pupazzi lo riprese. Il marchese ebbe pietà di lui e lo rimandò a Napoli con una scusa.

Ed eccolo di ritorno.

Don Gabriele si era ripetuto lungo tutta la strada:

— La prima cosa che farò sarà di portare la lettera al P. Piombini. Quell’altro ha detto che si trattava di vita o di morte. Caspita! non bisogna mica pigliarla a gabbo e rimetterla al quinto atto. Poi vado a casa, tiro dal soppalco la mia baracca ed i miei piccoli e vado a fare una burla al mio allievo, installandomi al Molo. «Chi è dunque codesto galuppo, dirà egli, che si mischia di far concorrenza all’allievo unico di don Gabriele? voglio proprio vederlo.» Ed io a ridere ed a dargli la