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ragioni ancora. Un giorno, io non mi sono più trovata la stessa. Si è operato in me qualche cosa d’incomprensibile e di sorprendente: io ho conosciuto un amore tutt’altro che quello cui avevo provato fino allora, se tuttavia gli è amore quella immenso divampamento che io ho sentito. Non mi scuso, vedi! ho fallito; condannami. Non sono io che l’ho cercato. Non sono io che l’ho voluto. Ciò arrivò come una febbre in piena salute. Io non ho civettato. Mi sono anzi ingiuriata, ho pianto prima di soccombere: ho provato di sostenermi colla ragione. Nulla mi è valso: non ho resistito.

— Oh! sì, il mio male è irreparabile, sclamò Gabriele. Ebbene, io non mi rassegno. Io so che di qui non posso far nulla: ma il cuore vuole una soddisfazione qualunque, oggi di speranza, domani di sangue. Io veggo chiaro in questa situazione: tu sei stata il ferro, colui la calamita; tu hai scivolato, egli ti ha tirata. Tu hai subito la violazione della pietà avanti la violazione dell’amore. È colpa tua se non sei stata più forte? La tua forza era l’amore; tu non mi amavi più. Ecco la tua parte in questa catastrofe. Ora bisogna regolare i conti: tanto per te, tanto per lui.

— Nulla per lui, osservò Concettella. Sono io che ho mancato ad un impegno; sono io che sono stata debole. Io non invoco più alcuna scusa, poichè tu vuoi giudicarmi e non compatirmi. Se tu mi avessi amata per me e non per te, tu avresti pianto sulla mia caduta e mi avresti aiutata a rialzarmi. Poichè la pietà, i riguardi, le considerazioni giuste e generose sulla mia posizione sono messe fuori