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dalla piazza della Reggia a quella della Carità, volgendo incessantemente gli sguardi ai balconi stivati di gente che continuava senza posa a sventolare i fazzoletti e gridare viva la Costituzione! Egli non fu avaro delle sguaiataggini officiali di moderazione, di ordine e di speranze. Promise inoltre che puntualmente avrebbe riferito al re i desiderii dei suoi fedeli sudditi: che avrebbe interposta la sua mediazione per renderli soddisfatti: che il re aveva animo inclinato a clemenza e bontà. Quelle scipitezze stereotipe non contentarono alcuno, molto più che avendogli il Trinchera presentata la coccarda tricolore, rifiutò decorarsene. Non pertanto si consentì ritirarsi ed aspettare per altri due giorni la provvidenza della borbonica munificenza. Statella, ritornato a palazzo, dipinse foscamente al re la situazione minacciosa del paese. Disse che la città intera era concorde in domandare uno Statuto; che se si adoperava la forza, l’esito era dubbio, sopra tutto perchè potevano essere schiacciati dalle ostilità che avrebbero incontrato dalle finestre: che le più accanite erano le donne: che la gioventù aveva a sangue freddo bravata la morte: che non era più tempo di resistere: che bisognava appigliarsi ad un partito, e che egli inclinava per la pace. Il re, maggiormente sconcertato dalle parole che il generale tuttavia sotto l’influenza dello sguardo e della pressione popolare, senza cortigianeria e con molta energia diceva, il re domandò respirare, riflettere un giorno ancora, consigliarsi; pari ad un condannato chiese grazia al messaggiere del popolo. La sera il consiglio di Stato si riunì. Il re udì tutti, pesò tutto, accolse tutti i pareri e tutti i propositi, ma senza palesare, anzi senza neppure far