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eunuco del serraglio, in cui la profanazione del padrone nulla ha tolto alle eccitazioni dell’istinto solleticato dalla vista di tante bellezze, la nazione napolitana aveva subita l’azione dissolvente del governo, ma non n’era stata trasformata. La parte giovane di essa palpitava di forte vita. Questo cuore della nazione si abbandonava alla contemplazione della prosperità dei popoli transatlantici, studiava la profondità del male che la disorganizzava, malgrado tutti gl’impacci e le persecuzioni che le opponeva il governo, anelava a rompere i lacci che l’avviluppavano, cospirava, e protestava. Cospirava senza nascondersi, protestava senza temere. Infatti nell’inverno del 1847 si pubblicava il mio Ildebrando, che rivelando l’impura origine del potere temporale del papa, severi consigli volgeva a Pio IX, e l’incapacità e l’impossibilità del principato nel XIX secolo proclamava. Nella state veniva fuori la Protesta famosa, la quale era il manifesto all’Europa della rivoluzione cui andavamo a metter mano. Libello stupendo, forte, vero, scritto dal più bravo e dal più disinteressato dei cittadini napolitani, ora col vigore ironico di Tacito, ora con lo sdegno di Giovenale, cartello di sfida mortale lanciato da un uomo di carattere veramente antico, di cui son dolente non poter segnare qui il nome, ma che pure è nella bocca e nel cuore di tutti i più nobili miei compatriotti. Alle proteste successero i fatti.


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10. Nell’agosto dell’anno stesso la rivoluzione di Reggio scoppiava. Ma quella non era che l’espansione di animo esulcerato troppo, impeto d’ira involontario e non preparato di guisa alcuna. La rivolta di Calabria, capitanata da un Domenico Romeo, caldo amatore