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che piacesse al re di sottomettere alla loro approvazione obbligatoria. L’ordine giudiziario, in gran parte ignorante, in grandissima parte corrotto, soggiaceva, nel decidere, ad ogni maniera d’influenze. Bastava una cedola di banco, una lettera di raccomandazione di qualche servitore di corte o di sacrestia, o una semplice lettera d’intimidazione del ministero: sopra tutto del formidabile Delcarretto. L’ordine amministrativo, schiavo perfetto e corrotto, compiva nel rubare la sua missione niente affatto dissimulata. Chi procurava al superiore più grossi guadagni, era il più abile; e dei guadagni partecipava il re, a cui il ministro delle finanze ciascun mese portava in dono una poliza vistosa col nome di risparmi. Le cariche, che si lasciavan vuote a disegno, erano devolute a benefizio del re, il quale ne toccava il salario. Qualunque lamento era punito del carcere misterioso della polizia. Le leggi non aveano vigore e significato, fuori quello che al principe ed ai suoi valletti fosse piaciuto dar loro. La rutina, la burocrazia, il dispendio, la fiscalità, la centralizzazione la più ottusa ed infeconda, l’annullamento di tutti i diritti individuali formavano la base dell’organizzazione dello Stato. La nazione era come interdetta e nello stato di alienazione, il paese tutto una prigione inviolabile. Il cittadino non aveva per sè che doveri da compiere: il trono e l’altare pompavano i dritti di tutti. Alle provincie, ai municipii non si accordava altra forma di esistenza che quella del pagare: ogni voto di mutar condizione, di migliorare, addimandavasi ribellione. La giustizia era un’utopia sovversiva dei vecchi carbonari e de’ nuovi settarii della Giovane Italia: la giustizia era la volontà e la forza del padrone. La mise-