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tente e poetica, egli non arrossisce di nulla. Nella città tutte le sproporzioni sociali e le idee fittizie lo prendono alla gola, lo stupiscono. Perciò è impacciato e goffo; sembra non comprendere più nulla. La vita è per lui un orribile geroglifico. Il prete non gli parla più del suo Dio, o non lo riconosce in quel fantasima terribile ed esigente che gli si addita. I suoi fratelli di miseria gli sembrano lupi, vampiro inflessibile il governo che gli domanda il frutto del suo travaglio, la sua libertà, i suoi figli, la sua volontà, la sua anima tutta intera. Un abisso lo separa dal resto dei cittadini, e questo abisso è l’organizzazione sociale, è la fame.

3. La nazione napolitana è divisa in due classi: il proletario e la borghesia. L’aristocrazia è un essere incompleto ed impotente, la quale non ha che un nome infecondo financo di memorie. Passiamo su lei. Abbiamo guardato il proletario il quale non ha altra risorsa fuori del braccio e dell’intelletto: esaminiamo la borghesia: Questa abbraccia tutti coloro che possiedono, incluso il clero e queglino che attingono la sussistenza nello stato discusso, ossia i funzionari pubblici. La forza sociale è attaccata al possesso della terra. Il capitale mobile vi è nello stato d’infermità e quasi d’intruso, perchè il governo ne ha tarpato ogni slancio, ovvero con savie provvidenze non ha curato mai dargli una vita energica ed attiva. Perciò poca industria e quasi nessun commercio; perciò una subordinazione violenta allo straniero, il quale, quando non ha potuto dominarci con la spada e con la verga, ci ha dominati con i trattati: in guisa che quando finiamo di essere schiavi ci troviamo coloni. La ricchezza del paese quindi, essen-