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stette innanzi alla guerra civile di cui andava a gittare il guanto. Però non patteggiò nè con l’opinione pubblica, nè con la sua coscienza. In luogo dell’atto di accusa formolò una domanda al re in cui, enumerando energicamente e con franchezza tutti i delitti e le violazioni commesse, chiese che il ministero Cariati fosse dimesso, ed un altro più omologo alla situazione del paese e dell’Europa fosse creato in sua vece. E per usare dell’antica pratica dei parlamenti inglesi, i quali per allargare sempre più il cerchio delle libertà popolari, univano le petizioni ai bill di sussidio; alla domanda associarono il progetto di legge che autorizzava il governo ad esigere le imposte per due mesi sul sistema stesso dell’anno trascorso. Per distornare quest’uragano il ministro Ruggiero, ribaldo sfrontato, ebbe l’impudenza di domandar conciliazione, e proporre una legge che autorizzava il ministero per sei mesi a percepire le imposte. Silenzio glaciale e severo accolse le sue parole, che caddero sulla assemblea come sopra un pavimento di marmo. Il progetto ministeriale fu respinto, quello della Camera votato. Il ministero sapeva che l’antipatia del popolo contro la Camera dei pari erasi estesa fino ai rappresentanti, e che perciò poteva farne facile strumento di vendetta e di dissidio. Questo consesso, che nella prima sessione erasi divertito a prepararsi un letto di morte nella discussione dei suoi regolamenti, aveva adesso dato segno di vita, ma solamente per assolvere il generale Filangieri dalle crudeltà di Messina, e per udir dalla bocca di Emiddio Cappelli delle insolenze plebee, plebeiamente profferite, contro la Camera dei deputati. Il ministero trasportò nel suo grembo la discussione