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di munizioni: con un altro ordine se ne chiamava a Potenza un contingente. Tutte queste inezie incontrarono poco.

L’indeterminazione, la paura di troppo inoltrarsi, la coscienza della propria nullità trasparivano ad ogni linea, ad ogni parola di quegli atti. Niente di sicuro, di forte, di rivoluzionario. Valeva la pena di far tanto strepito per domandare un cangiamento di ministero e nulla più? Bisognava agitarsi tanto per sottomettere al placet dell’Alì Tebelen di Napoli un umile voto? I danari mancavano; e non si ardì neppure impadronirsi della cassa del ricevitore generale, ove chiudevansi meglio di quarantamila ducati. Mancavano le armi, e non si osò neppure ordinare una perquisizione al domicilio di coloro i quali avevano favorite le collere del re. Mancavano le munizioni da guerra, e non si pensò neppure ad incoraggiare le moltissime fabbriche di polvere di contrabando, che da lungo tempo nella provincia esistevano. Si sollecitava la simpatia delle masse, e non si colpì d’interdizione nessuna delle imposte, nessuna se ne minorò. Si volevano impegnare nella rivolta gli uomini più capaci e probi ed alla testa del Comitato s’installava un presidente ed un vicepresidente d’incapacità ed immoralità per niuno misteriose. S’inalberava uno stendardo di sollevazione, ma questo stendardo non aveva colore alcuno, non additava alcun principio. Tanto lusso di sciocchezze disgustò parecchi dei delegati i quali altamente protestarono: ma le loro proteste furono impotenti. Il d’Errico, cui tra le altre cose per mezzo di un Ferrara, era stato promesso dal Bozzelli la carica di consigliere di Stato, il d’Errico concertava la rivoluzione coll’intendente della provincia e col