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del voto, come fece a proposito della legge sulla Guardia mobile ed altravolta. Carutti è di passaggio alla Camera; egli andrà a fossilizzarsi in qualche residenza diplomatica dell’importanza di quella di Atene.
Contemplando i banchi così zeppi della destra, ogni sguardo si arresta colpito innanzi di quella testa mezzo calva, cifrata da una cicatrice profonda alla tempia destra, sorridente a metà ed a metà brusca, silenziosa ed attenta. È il colonnello Malenchini — l’uomo che ha strappato davvero la corona dalla testa dei Lorenesi di Toscana. Malenchini, un dì repubblicano livornese, poi mazziniano, condusse quella gloriosa legione toscana che fece sì bella resistenza a Curtatone nel 1848. Dopo la restaurazione Malenchini emigrò a Parigi. Vi ebbe un duello; ritirò a Torino, poi a Livorno. Presentendo la guerra dell’Indipendenza un anno prima che scoppiasse, organizzò una legione toscana e cominciò ad esercitarla. La polizia non osò aver dei dissidii con una legione di mille giovani esaltati. La guerra scoppiò. Malenchini intimò al Granduca di voler condurre questa legione contro l’Austria; e Leopoldo II, volendo evitare disgusti, lasciò che la s’imbarcasse di notte, dicendo forse in cuor suo, a nemico che parte un ponte d’oro.
A Torino, una metà della coorte toscana passò nell’esercito, l’altra restò sotto gli ordini del suo conduttore. Ad Acqui, un telegramma chiama Malenchini a Torino. Due giorni dopo ci ritorna a Firenze, e, malgrado l’opposizione di tutti,