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viglia, e potè a suo comodo imbaggianare Leopoldo II e provocare l’annessione. Buoncompagni ha la parola fluente, è pieno d’idee politiche, un po’ scucite, è cattolico.... Ma quando domanda a parlare, tutti si accomodano nella postura la più agiata per sonnecchiare sotto una doccia di parole monotone, senza accento, senza vita, molli: ovvero chi di qua, chi di là, terminata la corrispondenza con i suoi elettori. Buoncompagni fa capo per interim, nè è uomo che sembri ammagrirne, oggi che non lo è più.
Il vero capo sarebbe Farini, se fosse assiduo alle sedute — come avvenne per un momento dopo la morte di Cavour. Farini non ha più l’itterizia: ma egli l’avrebbe data, se avesse continuato, a quel povero Minghetti, in faccia del quale si era assiso e lo covava con occhi beffardi e sarcastici. Collocato tra Farini per davanti e Ratazzi sul capo, Minghetti ne intisichiva a vista. Io non ho bisogno di delineare il profilo di Farini. Da quattro anni non si parla che di lui. Testa forte e profondamente accentuata, tratti vigorosi, naso aquilino, spirito ambizioso e soffice, scrittore elegante e collerico contro coloro che non dividono le sue idee, vanitoso ed epicureo, trincia da principe con agiatezza, ma parla all’occorrenza da tribuno. Farini ha pubblicato delle Storie d’Italia che ebbero successo meritato — avvegnacchè parzialissime. Fu ministro. Ma troppo inquieto ed impaziente, ebbe velleità di disegnare la sua persona di una maniera assai spiccata in faccia del conte di Cavour. L’astuto grand’uomo lo sguinzagliò sulle ruine