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Questa maggioranza, con la forza illogica del numero e l’audacia dell’ingegno, può condurre, spingere, regolare o spezzare un Gabinetto; fare delle leggi imprudenti, precipitare o ritardare gli avvenimenti. Il suo stesso silenzio, la sua stessa indolenza, è una forza. La sinistra discute, grida, rimprovera, si dibatte: cinque ore suonano, un Baldacchini qualunque, un Pantaleoni, sclama, fra due sbadigli: «Ai voti!» la destra alza la mano, uno, due, tre.... le tour est fait, la discussione è strangolata, la legge è votata. La sinistra si diverte a ragionare, a perorare per quattro ore contro il Ministero; Minghetti, o un ministro qualunque, s’alza, trincia qualche scusa, spiffera una tirata a proposito o no, promette, promette e poi promette, la parola chiusura salta su da un qualche banco.... ed il Ministero è salvato — più ancora, trionfa, e quel caro signor Minghetti ci ride sul muso. Per lo innanzi, essi si davano ancora la pena di discutere, di brillare, di far parata d’ingegno e di sapere davanti al conte Camillo. Ora, a che pro? Si suona la carica, e la bisogna è sbrigata.

E nondimeno, egli è d’uopo dirlo, su i banchi della destra seggono degli uomini rimarchevolissimi, degli uomini d’ingegno e di sperienza.

Il Ministero si è rinforzato di un personaggio di valore, dell’uomo che organizzò in realtà la presa di Ancona e di Gaeta e disdegnò di vantarsene — il generale del genio conte Menabrea. Questo generale, Valdese, era il fiore il più squisito della reazione. Oltramontano puro sangue, spiattellatamente piemontese, arrogantemente realista, egli