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armi nelle lettere, nelle scienze, nelle lotte delle rivoluzioni, nelle zuffe degli articoli della stampa. Essi rappresentano tutti delle brillanti molecole dell’anima e del cuore d’Italia; ma, collettivamente, le loro forze sono paralizzate dalla mancanza di carattere politico. Essi dubitano di sè stessi e del principio della rivoluzione che si lusingano rappresentare. Essi si credono democratici. Dio santo! democratici di carta dipinta!
Il terzo partito indebolisce l’estrema sinistra, da cui si distacca, e non rinforza il centro, cui respinge. Nè il conte di Cavour, nè il barone Ricasoli lo temono. È sospetto a tutti, come ambizioso: è ambizioso, ma impotente: è impotente, ma orgogliosamente dottrinario. Il terzo partito era per il conte di Cavour il guardaroba dei suoi uniformi nuovi. Quando egli voleva far la corte all’Italia, egli si addobbava dì questi signori, ed i gonzoloni a gridare: Viva il conte! il conte progredisce! Per il barone Ricasoli poi, il terzo partito è un serraglio di fiere addimesticate in mezzo a cui si deciderà un giorno ad entrare e dire al lione: petit, doune moi ta patte! e dire al tigre: drôle, salue moi donc!
Ma non ci arrestiamo alle apparenze: scaviamo il fondo.
L’Italia è donna ed esce da una rivoluzione — o, per meglio dire, mette giù la sopraveste della rivoluzione. Le rivoluzioni consumano prontamente. Ed ecco perchè io diceva più innanzi, in qualche parte, che la situazione degli spiriti nel Regno italiano è favorevole al terzo partito — che