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mare, che alcuna possa essere o divenire infelice contro sua voglia.
P. — Respiro: — perchè ed avvi cosa più vera di questa? o v’è persona tanto nuova del mondo, o sì disgregata dall’umano consorzio, la quale non sappia siccome la povertà, il dolore, l'infamia, le infermità in fine e la morte, con ogni altra guisa di sciagure che si stimano il colmo d’ogni male, c’incolgano il più delle volte a nostro malincuore, e volontariamente giammai? Donde ne deriva che sia ben facile il conoscere e l’odiare la propria miseria, ma non così il cacciarla lontana. Perciò è a dire che le due prime cose sieno in nostra mano, la terza dipenda dalla fortuna.
A. — Chi si vergogna d’un fallo merita scusa, ma la sfacciataggine fieri rimbrotti. E può esser mai che ti sieno di già cadute dal pensiero tutte le sapientissime sentenze dei filosofi, onde poco fa mi provasti, niuno, per le cagioni testè menzionate, divenire infelice? Perchè, se da Marco Tullio e dalle invitte ragioni di molti si dimostra, non avervi se non la sola virtù che renda l’uomo beato, apertissimamente ne conseguita, che nulla più allontani dalla felicità quanto l'opposito della virtù; il quale in che proprio consista, tu devi ricordartene, se pure la tua mente non è affatto ottenebrata.
P. — Io sì che me ne ricordo; e con