sue, scritte in sua lingua e nella debita forma promulgate. Potè il buon Cesare, vedere abolita la tortura; il marchio, la gogna, altre pene infamanti si tolsero più tardi. Pubblici i dibattimenti, dei delitti più gravi sentenziano i giudici del fatto; non solo al reo, ma neppure a chi è stretto con lui in legame di parentela si impone un giuramento che ripugni ai suoi sentimenti naturali. La pena di morte rimase pur troppo, ma un sentimento di sdegno e di riprovazione si manifesta per tutta Europa qualunque volta la legge vi ricorra; e pietosi i giurati correggono quasi in ogni caso il vizio de’ codici, col rinvenire circostanze attenuanti. Ci verrà fatto fra breve di toglierci d’innanzi il turpe spettacolo del carnefice e de’ patiboli? Potremo noi presentarci mondi di sangue ai nostri figli? Io lo spero; ma la pena di morte non potrà essere saviamente abolita, se non da quel popolo in cui l’impero delle leggi prevalga al furore delle passioni, se non in quel paese dove le carceri sieno ordinate per guisa che mentre assicurino la società che il reo non si sottragga alla pena, procaccino anche tutto quanto conferisca al bene morale del condannato. Ed ahi! quanto rimane ancora a fare! Diciamolo a nostra vergogna o meglio ad incitamento: incalzati ad ogni istante dalle più crudeli angustie economiche, noi, discendenti di Beccaria e contemporanei di Giusti, ci vediamo costretti a raccogliere dal turpe giuoco del lotto parecchi milioni che aumentano la miseria delle plebi, e colla miseria il delitto, e cerchiamo in-