Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
33 |
niuno a que’ tempi uguagliava la fama, non isdegnava adergersi all’ali del giovine italiano, l’opera del quale reputava valesse in morale quanto in medicina quei pochi rimedi che sanno lenire i nostri mali1. Invitarono Cesare nostro a recarsi a Parigi ed egli a malincuore aderiva, sebbene poi fra quelli spigliati parlatori, fra que’ lieti novellieri, fra que’ scettici dagli arguti sali e dalle invereconde celie non si trovasse ad agio e si rimanesse taciturno e crucciato fino a che, richiamato da familiari affetti, sollecitamente rediva in patria. Il suo libro intanto diffondevasi per l’Europa, l’edizioni italiane moltiplicavansi e del pari le versioni in ogni lingua. Il duca di Würtemberg ne scrivea lodi a Cesare nostro, Catterina di Russia gli faceva invito, perchè pigliasse stanza nel suo impero, ma il governo austriaco saggio e mite allora in Lombardia, quanto a’ nostri di si dimostrò stolto e crudele, reputando non gli tornasse in onore «il vedersi prevenuto dagli esteri nella stima dovuta agli ingegni»2, lo elesse a professare Economia pubblica nella scuola Palatina di Milano.
Fra tanti incoraggiamenti e tante lodi non fecero difetto per altra parte le censure, le accuse, le condanne. La repubblica di Venezia, credendo scorgere alcuna allusione ai terribile Consiglio, proibiva il libro