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Vantini, e negli ultimi giorni del viver suo già accingevasi al lavoro con quella operosità indefessa che solea porre in ogni cosa che reputasse buona. A me, scelto dopo tanta e si improvvisa sciagura a supplirlo, non resse l’animo di continuare i suoi studi; troppo mi era viva nel cuore la sua imagine perchè il mio pensiero potesse, per così dire, incontrarsi ad ogni istante col suo, eppure serbasse quella serena tranquillità che è necessaria a chi medita. Però mi volsi ad altro argomento, e l’affetto imperava alla mente per guisa che le indettava la scelta; così mentre essa avrebbe forse chiesto del pensatore sottile che delle dottrine metafisiche avesse rischiarato la fitta tenebria, l’animo, a conforto del vivo dolore che ancor lo pungea, voleva mettersi tutto nei sentimenti di chi, per generoso entusiasmo di recare altrui giovamento, si fosse meritato l’universale gratitudine. Pensai tosto a Cesare Beccaria, del quale non so se la potenza dell’ingegno dalta bontà dell’animo fosse vinta, o questa da quella, ma certo l’una e l’altra furono singolari, l’una e l’altra dirette di continuo al bene, l’una e l’altra intese a sollevare l’uomo dai mali maggiori, a volgerne in meglio le sorti.
Tuttavia, perché mi sia dato favellarvi di un tanto uomo non indegnamente, mi conviene innanzi considerare per quali rivolgimenti la scienza si levasse a quella altezza, onde al Beccaria riuscì possibile e meno arduo l’acquisto del vero. Certo a conoscere di lui e de’ suoi scritti non stimo necessario appuntare l’occhio