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più difficile non era reso il suo compito dal modo stesso della procedura, dallo strano giuramento che si imponeva all’imputato contro sè medesimo, e dal mezzo più infame pel quale volevasi carpita la verità, la tortura? Questa barbara istituzione bastava a viziare ogni buon metodo; eppure i metodi erano per sè stessi tanto imperfetti. Quali poi gli strazi del misero torturato, niuno è che ignori. Dove, descrive Cesare Cantù 1 il paziente si stirava al possibile e lo si gonfiava di aqua; dove lo si sospendeva con tanaglie per le unghie e gli si schiacciavano le dita; dove sotto le unghie si ficcavan punte; dove colle strappate si lussavano le ossa; dove usavasi la veglia, scanno di legno a punta di diamante, sulla cui cima appoggiavasi l’estremità della spina dorsale, donde veniva uno spasimo insopportabile che rinnovavasi finché il reo confessasse, il quale intanto dinanzi ad uno specchio vedeva tutte le contraffazioni del proprio viso; dove...... oh! ma l’animo non regge a continuare! Non mi venne mai fatto di comprendere come l’uomo, vincendo la ferocia delle belve, nel nome della giustizia che è santissima fra le virtù, potesse sì stranamente incrudelire contro il suo simile! Non si perdonava al sesso più debole, e, ciò che rende ancor più turpe la cosa, i nobili e gli ecclesiastici contavano anche qui i loro privilegi: ciò che la renderebbe, se pur fosse possibile, più deplorevole, mezzo a sco-

  1. Beccaria e il Dir. penale III.