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sera, le aveva sempre ispirato una specie di ritrosia. Tutta la servitù mostrava una grande tristezza, come se fosse accaduta in casa qualche grave disgrazia. In cucina trovò la Menica che piangeva.

— Per carità, Menica, che cosa è avvenuto? — le domandò. — Dov’è la signorina?

— Oh, non la rivedremo mai più — rispose la fattoressa accorata. — Io credevo che fosse andata a Gorizia; invece nella lettera che ha lasciata per il padrone, dice che ci ha abbandonati per sempre: si è ritirata in un convento. —

L’Oliva rimase così colpita da quella inaspettata notizia, che non trovava parola.

— Ah! io dovevo prevederlo! — continuò la Menica. — Quando mi disse addio, ella pianse tanto.... E poi quel raccomandarmi di salutare i suoi amici, quel ricordarsi di ciascuno.... Quell’anima santa ha voluto fino all’ultimo momento far del bene a tutti quelli che conosceva; e anche di te, Oliva, si è ricordata; anche del tuo bambino. — E la condusse di sopra per consegnarle i doni che la signorina le aveva destinati e per ripeterle le ultime parole di affetto con cui si era divisa da quelle persone e da quei luoghi che aveva tanto amato.

La lettera che ella aveva lasciata allo zio diceva così:

                    «Mio buon padre,

Permettete che nel dividermi per sempre da voi, io faccia ancora uso di questo dolce nome che mi concesse la vostra tenerezza. L’orfana che voi avete raccolta, la creatura che vi piacque ricolmare di tanti benefizi, la figliuola del vostro amore, la vostra Cati,