non era di Vienna. Dinanzi alla finestra, tra i ricchi pendoni delle tende, pendeva in forma di lampada un piccolo vaso di ghisa con entro una pianticella rampicante. Non prezioso nè per metallo, nè per ricchezza di adornamenti, era bensì elegantissimo e nella sua sveltezza e nella sua semplicità ricordava quelle graziose lucerne funerarie, che anche nel Friuli escono talvolta dal seno della terra a farci fede del buon gusto artistico dei nostri antichi. In evidente contrasto con tutti quei mobili sovraccarichi di minuzioso lavoro, finitissimi se vuoi in ogni loro parte, ma pesanti nell’insieme, pareva che esso solo avesse con la signorina ammalata qualche analogia. Infatti anch’ella, pallida in viso, con le trecce disciolte, senza ornamenti, negligentemente avvolta in quella semplice mussolina che delineava con la sua finezza in contorni delle belle membra, anch’ella era bella più che per altro per la purezza delle forme o per quel non so che di armonico e di gentile che traspariva da tutta la sua persona. E un’altra somiglianza pareva che esistesse tra la giovinetta e quella pianticella destinata a vivere lì nella sua camera. Circondate da un’atmosfera artificiale, in mezzo ad oggetti stranieri, erano entrambe come prigioniere. La pianticella nel pallido suo verde stendeva gli esili germogli verso il raggio di luce, che a traverso le persiane e le tende veniva debolmente a visitarla, e pareva si struggesse nel desiderio del suo clima originario, del sole, dell’aria aperta del suo lontano paese. La fanciulla, nella profumata penombra di quel magnifico salotto, pareva anch’ella languire come uccellino in gabbia dorata. Forse sentiva fervido il desiderio d’una più libera vita; forse dinanzi alle chiuse pupille le passavano memorie di altri tempi e di altri luoghi, e