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bruciati del suo telaio e un gran mucchio di filati abbruciacchiati, e a quelli stava appoggiata. I soldati, forse per dileggio, le avevano messo a’ piedi una scodella di vino con entro della salsiccia tagliata a mo’ di zuppa. Non poterono farle pronunziare una sola parola. Guardava stralunata con un certo sorriso così strano, che cavava proprio le lacrime. Pareva che i suoi occhi, dinanzi ai quali era passata tutta quella orrenda scena di distruzione, non potessero più ravvisare anima viva. Volevano menarla via, ma non fu possibile; strillava, si strappava i capelli, si mordeva le dita. Il nostro buon parroco, che in tutta quella tremenda disgrazia non ci ha mai abbandonati, avvisato del caso, venne a vedere la disgraziata. Parve un istante riconoscerlo, perchè gli prese il lembo della veste e glielo baciò; ma nemmeno a lui riuscì di farla muovere e dovette andarsene com’era venuto. Egli si adoperò poi per trovarle un posto nell’ospedale di Udine. Quando vennero a prenderla capì dove volevano condurla e si mise a piangere e s’inginocchiò; ed essendole tornato l’uso della parola, pregava, scongiurava per il sangue di Cristo che non volessero portarla all’ospedale. Ve la portarono per forza, e tre giorni dopo era morta!

— Povero zio Coletto! povera zia Giustina!... Che fine lacrimevole!... Ah, per pietà, Oliva, non parliamo più di queste tristi vicende!— disse tutta rattristata la ragazza. E Oliva:

— Ti fa male, eh? Pensa a chi lo vide coi propri occhi; a chi ne fu parte! E non ti ho parlato che di due soli sventurati! Sai tu quante storie di lagrime e di sangue potrei ancora narrarti?... Ma chi potrebbe numerar poi i tanti periti miseramente proprio dopo essere scampati dal fuoco? E quelli che periranno a