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il canarino del n. 15. 49

dov’era un gran lavorìo di pulegge, e uno scorrere di strisce di cuoio, lunghe, lunghe, che non finivano mai, e si tiravano dietro il suo cervello, tutto il giorno. Sul muro c’erano dei gran fogli stampati, che ella leggeva e tornava a leggere, sebbene li sapesse a memoria; e la notte li vedeva ancora, nel buio, cogli occhi spalancati, bianchi, rossi, azzurri, mentre si udiva il babbo che tornava a casa cantando con voce rauca: “O Beatrice, il cor mi dice„.

Ella pure, la Màlia si sentiva gonfiare in cuore la canzone, quando i monelli passavano cantando e battendo gli zoccoli sul terreno ghiacciato, nella nebbia fitta. Ascoltava, ascoltava, col mento sul petto, e provava e riprovava la cantilena sottovoce, davvero come un canarino che ripassi la parte.

Diventava anche civettuola. La mattina,