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40 pensieri e discorsi

XIV.


Ma noi italiani siamo, in fondo, troppo seri e furbi, per essere poeti. Noi imitiamo troppo. E sì, che studiando si deve imparare a far diverso, non lo stesso. Ma noi vogliamo far lo stesso e dare a credere o darci a credere di fare meglio. Perciò sovente ci pare che, incastonando la gemma altrui in un anello nostro, noi abbiamo trovata e magari fatta la gemma; e più sovente ci imaginiamo che, dorando la statua di bronzo, quella statua non solo sia più bella, ma diventi opera nostra.

Noi non gettiamo più il martello contro i blocchi di marmo: ci accontentiamo di pulire e lustrare le statue belle e fatte. Al più al più, noi facciamo l’arte di Giovanni da Udine: eleganti stucchi: ma non ricordiamo quel che Giovanni disse, mi pare, a Pietro Aretino che ne lo ammirava: Bambocci vogliono essere!

E le scuole ci legano. Le scuole sono fili sottili di ferro, tesi tra i verdi mai della foresta di Matelda: noi, facendo i fiori, temiamo a ogni tratto d’inciampare e cadere. L’ho già detto: se uno si abbandona alle delizie della campagna, teme che lo chiamino arcade; se un altro si vede avanti un’antitesi, sta un pezzo tra il sì e il no, temendo d’essere chiamato secentista. Mentre la mandra degli imitatori si butta alla rinfusa dietro qualche ariete maggiore, e tutti si mettono a belare o mugliare a un modo; sì che in certi tempi pare che gl’italiani (giudicandoli da quelli che scrivono in versi) non abbiano che l’amica, in certi altri non abbiano che la mamma; i poeti veri sono pieni del contrario affetto: vogliono cioè