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328 | pensieri e discorsi |
II.
Il sepolcro
E l’altare è quell’arca. L’arca posa su colonnette di porfido: quelle che sorreggono il tolo che la protegge, sono di diaspro verde. Capitelli e fregi, di varie età e di genti diverse, vi sono armonizzati con l’ingenuo e forte sentimento col quale esso stesso, il sepolto, nell’oltremondo virgiliano e platonico vedeva i neri cherubini con le sferze e con i raffi, e i bianchi angeli ventilanti con le ali. Chi esamina a parte il monumento, riconosce là il fior del loto e qua la foglia d’acanto, e altrove una danza di caudati satiri attici, e altrove una teoria di estatiche vergini bizantine, e in un angolo l’aquila coi fulmini tra gli artigli e in un altro l’agnello con l’aureola e la croce, e le rose del giocondo triclinio e i grappoli della vigna sacra, e qualche unciale imperiosa d’un’ara e il misterioso monogramma d’una basilica; chi s’appressa vede che le parti del monumento semplice e uno vennero da ipogei inaccessibili alla luce e da obelischi riscintillanti al sole, da ruderi di più età, da rovine di più mondi: ma chi la contempla nella solenne penombra del suo tempio vegetante coi secoli, ammira purissime linee che circoscrivono tre colori un po’ stinti i quali non si sa se siano quelli dell’antica Beatrice, impalliditi per il tempo, o quelli, non ancora fiammeggianti, dell’Italia avvenire.
Presso il sacello è un grande ulivo che abbraccia con l’ombra le reliquie sante.