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222 | pensieri e discorsi |
Le stelle brillavano ancora nel cielo così bello e puro. Quel canto di zampogna pareva dovesse avere un’eco nel firmamento. Quel focherello di quaggiù, così umile e rossastro, pareva avere un perchè di cui le stelle di lassù, così limpide e d’oro, fossero consapevoli.
Di lì a poco le stelle impallidirono e scomparvero insensibilmente. Il lumino si spense e la sinfonia pastorale si tacque e il piccolo rito finì. E all’apparire dell’alba cominciò il tramestìo e lo scalpitìo soliti, con quel doloroso sforzo di voci strascicate, di piedi strascicati, di vite strascicate.
Era giorno, e tutto era come prima: l’oggi come il ieri e il domani.
O povero ciaramellaro dei monti, perchè hai dunque sonato l’avvento? l’avvento di che? che cosa è questo regno che ha sempre da venire e non viene mai? questo regno che ha da essere in terra come in cielo? questo regno che ha da fare un cielo nella terra? Oh! come ogni anno si dice che verrà? come ogni secolo si dice che è per venire? come ogni millennio si dice che non è venuto? Mai dunque? mai? Vano è dunque sperare, vano sognare, vano pensare; chè gli uomini, e singoli e insieme, sono condannati a patire o fame o rimorso; a patire l’odio che loro si porta, e, peggio, l’odio che portano agli altri; a patire, oltre il male che la natura ci ha assegnato, anche quello che ci fanno i nostri fratelli, e peggio quello che facciamo noi ai nostri fratelli? Povero ciaramellaro, perchè canti così dolcemente e inconsciamente l’avvento del regno che non può avvenire? Non vedi, nel tugurio dove suoni l’organo silvestre dell’umile rito, non vedi forse un