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174 | pensieri e discorsi |
debba che governare la nostra lampada sepolcrale. Secondo l’ingiuria che spesso mi si fa, di chiamare “poeta„ me lettore, che torna a dir buon musico un condottiere d’esercito, secondo questa ingiuria, che io tollero in pace, perchè ve n’è di peggiori; per esempio, quella di chiamarlo carnefice, un condottiero, e pedante, un lettore; secondo quella placida ingiuria, io sarei dunque, o giovani, molto idoneo a quest’uffizio di indovino. In verità il poeta è o dev’essere l’uomo che non vive se non nel futuro, il cui mietere è il seminare stesso, e che gode il rezzo degli alberi che pianta e che non adombreranno se non la sua tomba. Oltre tomba è la sua vita e la sua ricchezza e la sua gioia, se il poeta è poeta, e non modista, non cercatore di plausi e lusingatore di passioni; s’egli è la voce nuova che cerca i cuori dove echeggiare; i quali non sempre o non mai trova nel suo tempo; e non è l’eco, moltiplicata e compiacente e artifiziosa delle grida che già sono nelle bocche, e che sono le solite, e non sono sempre le buone e le vere. Io sarei dunque, se fossi un vero poeta, idoneo all’uffizio di esploratore e narratore dell’avvenire. Proviamoci, a ogni modo.
Ecco: prima di tutto, e qui la poesia non c’entra, il presente mi spaura. In questi giorni due Stati europei in Africa danno gli ultimi tratti, e sono per spirare dopo una lunga guerra. Chi li uccide? Chi usa sino all’ultime conseguenze il diritto del vincitore? Il popolo sino ad ora vindice di tutte le libertà, assertore di tutti i diritti. Pure, si dirà, al vinto rimarrà la sua autonomia amministrativa, rimarranno le sue tradizioni nazionali, rimarrà quel vero fuoco di Vesta, che è la lingua. Il popolo inglese, si dirà,