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un poeta di lingua morta 163

demia Neerlandica e allora era l’Istituto Belgico. E a me fanciullo si diceva che quel poemetto era il più bel ramo fatto germinare, per dirla col Regaldi, da quell’albero morto che è l’antichità classica. L’età non ha modificato quel giudizio. Sì che io vedendo, pochi mesi sono, quel mare e quel lido, che erano così limpidamente descritti nel poemetto, sì, pensavo con venerazione al vecchio mago che con una lingua morta aveva saputo creare cosa tanto viva.



II.


E avrei voluto vederlo. Solo vedendolo e parlando con lui mi pareva che avrei avuto intera la visione che mi incantava.

Io sentiva la poesia: volevo vedere il poeta: approdare alla terra d’Ibyco con una nave che più assomigliasse alla triere; approdarvi un bel mattino, e recarmi peritoso, ospite tirreno, al poeta greco rifinito dagli anni e colmo di gloria.

E quando il vecchio poeta m’avesse incoraggiato, gli avrei detto:

— Poeta, perchè scrivete in un linguaggio che più non suona su labbra di viventi? Perchè volete che solo i poeti v’intendano? Se cercate la lode dei più, perchè vi rivolgete ai meno? Se mirate all’utilità di tutti, inducendo, come voi dite, nei petti umani mansueto costume, valor, senno, pietà, oneste voglie, perchè solo alcuni privilegiate de’ vostri ammonimenti armoniosi? E perchè cotesta solitudine? cotesta segregazione che sembra rimproverare altrui? Ibyco, il vostro concittadino antico, andava citareggiando d’isola in isola,