nostre scuole classiche avremo allora anche il sanscrito, e leggeremo Kâlidâsa, e ci inebbrieremo delle musiche de’ Kinnara e de’ Gandharva, noi ora vorremmo, che per una ragione o per un’altra, non si pregiudicasse l’avvenire, togliendo ora o rendendo facoltativo il nostro greco. Rendendo facoltativo! Ma ci ha pensato abbastanza alla stranezza di questa idea? Ma non è tutto facoltativo lo studio? Chi obbliga?... Noi, si risponde: sì, noi obblighiamo i nostri giovani a procacciarsi un certo tipo e una certa dose di cultura, quale ci pare adatto e sufficiente per entrare nelle Università. Ora il greco non ci pare necessario per tutti. Sta bene: ma perchè tanta premura, tanto rovello, tanta insonnia, direi, a ciò che i giovani se la procaccino questa cultura, col tipo e nella dose richiesti? L’insegnante ha un gran registro, dove sono segnate a ogni momento le pulsazioni di codesta cultura: sette, otto, cinque meno, cinque più. Badate, tastate ad ogni quarto d’ora, abbiate sempre tra le dita i polsi giovanili. Adagino con la roba nuova: interrompetevi, provate. Ogni due mesi o ogni mese (secondo ministri) rivista generale: l’uno dopo l’altro passino tutti (trenta o quaranta in ogni scuola) avanti il sig. professore, e ripetano il poco che egli ha potuto dire di nuovo, e mostrino — di settimana in settimana, di mese in mese — quali progressi hanno fatto “nella difficile arte del comporre„. Alla fine dell’anno scolastico, il professore compulsi i suoi registri, sommi e divida, dopo aver di nuovo tastato, interrogato, rivisto: cinque e tre quarti, può dar l’esame; cinque e un quarto, non può. Poi, esame di primo appello: quindici o venti giorni passati in rivedere, interrogare, tastare: sei, idoneo: cinque non