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tava in cortile. Mi fece trasalire. «Siamo il cane e la lepre», pensai.
Venne carnevale e, strano a dirsi, la piazza che traversavo tutti i giorni per scendere a scuola, si riempí di baracconi, di folla stracca, di giostre e bancarelle. Vidi ginnasti infreddoliti, e carrozzoni; quel po’ di baccano che ne usciva non mi fece la pena consueta. Pareva miracoloso che ci fosse ancora gente disposta a viaggiare, infarinarsi la faccia, mostrarsi cosí. Metà della piazza era diroccata da bombe, qualche tedesco sfaccendato si aggirava e curiosava. Il cielo dolce di febbraio apriva il cuore indolenzito. In collina, sotto le foglie fradice, dovevano spuntare i primi fiori. Mi ripromisi di cercarli.
Ormai camminavo le vie spiando sempre se qualcuno mi seguiva. Lasciavo che Cate scendesse dal tram, s’incamminasse; la raggiungevo a mezza costa, nella sera già chiara. Mi dava notizie di Giulia, degli altri. Si sapeva soltanto che Giulia era viva, si bisbigliava di attentati e rappresaglie tedesche — era sempre possibile che un giorno o l’altro facessero ostaggio anche di una donna e la mettessero al muro. Fonso non venne piú a Torino: in montagna si organizzavano per le azioni di primavera. I depositi delle Fontane — fu Cate a parlarne — dovevano venire i suoi uomini a ritirarli in quelle notti. — Meno male, — le dissi, — sbrigatevi. È roba da pazzi — . Lei sorrise e mi disse: — Lo so.
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